La Corte dei conti evidenzia la «grave negligenza e trascuratezza» nella gestione della crisi del Casinò da parte del Consiglio Valle del 2014

Scritto da Angelo G. Musumarra

2 Agosto 2021 - 18:00
Augusto Rollandin e Marco Viérin nel 2012

Nelle 109 pagine della sentenza che conferma condanne ed assoluzioni, pur riducendole per l’aumento di capitale da sessanta milioni di euro alla Casino de la Vallée, deliberato dal Consiglio Valle il 23 ottobre 2014, la terza sezione giurisdizionale centrale d’Appello della Corte dei conti, ha confermato, fondamentalmente, le tesi della Procura contabile di Aosta, che in fase di appello, aveva chiesto risarcimenti più consistenti, dagli oltre quattordici milioni di euro da parte di Aurelio Marguerettaz, attuale consigliere regionale, ai quasi tredici milioni di euro per l’ex presidente della Regione Augusto Rollandin, anche lui rieletto in Consiglio Valle.
Per l’ex assessore regionale Giuseppe Isabellon la richiesta della Procura di Aosta era superiore ai dodici milioni e mezzo di euro, arrivando a dieci milioni netti di euro sia per Albert Lanièce, attuale senatore della Valle d’Aosta, sia per l’ex consigliere regionale Ennio Pastoret, chiedendo più di sei milioni di euro all’ex presidente della Regione Antonio Fosson e quasi cinque milioni e mezzo all’ex presidente del Consiglio Valle Emily Rini.
Le richieste per gli altri imputati (che dovranno pagare ognuno la somma di 586.666 euro) andavano tra una somma di poco superiore ai tre milioni e 600mila euro agli oltre due milioni e mezzo, con una richiesta più bassa per l’ex assessore regionale Ego Perron, appena sotto il milione e 700mila euro (condannato insieme ad Augusto Rollandin e Mauro Baccega ad un risarcimento danni di due milioni e 400mila euro) e per Marco Viérin, di poco sopra il milione e 400mila euro.

La Corte dei Conti abbassa sensibilmente i risarcimenti chiesti per i finanziamenti al Casinò, confermando condanne ed assoluzioni

La valutazione in merito sul ruolo della Corte dei conti

Siccome i vari imputati avevano contestato “la sussistenza della giurisdizionale contabile, ritenendo che la delibera del Consiglio regionale numero 823 del 2014 fosse espressione di una scelta di merito, non sindacabile in sede giurisdizionale”, la terza sezione giurisdizionale centrale d’Appello della Corte dei conti, presieduta da Luciano Calamaro, e composta dai giudici Chiara Bersani, Giancarlo Astegiano, Marco Smiroldo e Patrizia Ferrari ha osservato che «secondo quanto affermato costantemente dalla giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione, il giudice contabile non viola i limiti esterni della propria giurisdizione, qualora censuri non già la scelta amministrativa adottata, bensì il modo con il quale quest’ultima sia stata attuata, profilo che esula dalla discrezionalità amministrativa, dovendo l’agire amministrativo comunque ispirarsi a criteri di economicità ed efficacia. Si è sottolineato, in proposito che i principi di economicità e di efficacia, introdotti nell’articolo 1 della legge 7 agosto 1990, numero 241, costituiscono un limite alla libertà di valutazione dell’Amministrazione e rappresentano regole giuridiche di azione, delimitando l’ambito degli spazi discrezionali, e, quindi, delle aree di effettiva insindacabilità. La valutazione del giudice contabile non può riguardare la singola scelta e le ragioni giustificatrici dell’Amministrazione, ma è indirizzata a verificare se gli strumenti scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti ed estranei rispetto al fine pubblico da perseguire, così come determinato dalla legge che ha conferito il potere- L’osservanza dei principi di economicità ed efficienza non rappresenta una scelta discrezionale degli amministratori venendo in rilievo veri e propri connotati indispensabili per la legittimità dell’azione amministrativa».

«La Corte dei conti può e deve verificare la compatibilità delle scelte amministrative con i fini dell’Ente pubblico – hanno ribadito i cinque giudici contabili – partendo dalla verifica dei criteri di economicità ed efficacia che assumono rilevanza non sul piano della opportunità, ma su quelli della legittimità dell’azione amministrativa e consentono, in sede giurisdizionale, un sindacato di ragionevolezza sulle scelte dell’Amministrazione, onde evitare la deviazione di queste ultime dai fini istituzionali e consentire la verifica della completezza dell’istruttoria, della non arbitrarietà e proporzionalità nella ponderazione e scelta degli interessi nonché della logicità ed adeguatezza della decisione finale rispetto allo scopo da raggiungere. Nel caso di specie, la valutazione del comportamento degli amministratori, così come prospettata nell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado e documentata negli atti di causa, è stata condotta al fine di verificare la conformità dell’adozione della delibera del Consiglio regionale n. 824 del 2014 alle regole di sostegno finanziario delle società a partecipazione pubblica, alla disciplina comunitaria sugli aiuti di Stato e di accertare che la scelta in concreto adottata, vale a dire l’aumento del capitale sociale nelle condizioni finanziarie e patrimoniali in cui si trovava la società, come descritte nella stessa delibera, fosse rispettosa dei principi di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa nello specifico settore della gestione dei beni regionali e, in particolare, delle società a capitale pubblico».

La responsabilità dell’attività dei consiglieri regionali

«Gli appellanti hanno contestato la sussistenza della giurisdizione contabile anche in relazione ad altro e diverso profilo, affermando che la contestazione di responsabilità in relazione all’adozione di una delibera del Consiglio regionale violerebbe l’articolo 122, comma 4, della Costituzione, risultando preclusa l’azione giudiziaria in relazione a comportamenti che rientrano nella autonoma espressione della funzione di consigliere regionale» prosegue la sentenza, raccontando le obiezioni dei vari imputati.
«Anche in relazione a questo specifico aspetto, la statuizione del giudice di primo grado, che ha respinto l’eccezione di carenza di giurisdizione della Corte dei conti, è esente da censure e meritevole di conferma – ribadiscono i giudici – infatti, non risulta alcuna norma di esenzione dalla responsabilità amministrativa in favore dei consiglieri regionali, come precisato anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui “una volta affermata la piena estensione della giurisdizione contabile nei confronti degli apparati regionali e provinciali, una esenzione da questa in favore di specifici organi della Regione e delle Province, vale a dire dei consigli, costituirebbe una eccezione, la quale dovrebbe trovare fondamento in norme costituzionali, che invece non sussistono. Non è possibile, come questa Corte ha già più volte affermato, considerare estesa ai Consigli regionali la deroga, rispetto alla generale sottoposizione alla giurisdizione contabile, che si è ritenuto operare, per ragioni storiche e di salvaguardia della piena autonomia costituzionale degli organi supremi, nei confronti delle Camere parlamentari, della Presidenza della Repubblica e della Corte Costituzionale. Le assemblee elettive delle Regioni non sono infatti parificabili alle assemblee parlamentari; i Consigli regionali godono bensì, in base alla Costituzione, di talune prerogative analoghe a quelle tradizionalmente riconosciute al Parlamento, ma, al di fuori di queste espresse previsioni, non possono essere assimilati ad esso, quanto meno ai fini della estensione di una disciplina che si presenta essa stessa come eccezionale e derogatoria”. Il giudice delle leggi ha sottolineato che l’autonomia organizzativa e contabile del Consiglio regionale, tutelata dall’ordinamento, non può annoverare al suo interno un’esenzione da responsabilità, posto che la posizione di membro del citato consesso “non può implicare di per sé che l’amministrazione consiliare sfugga alla disciplina generale, prevista dalle leggi dello Stato, in ordine ai controlli giurisdizionali”».

La “consapevolezza” dei consiglieri regionali sulla situazione del Casinò

«Contrariamente a quanto sostenuto dagli appellanti – scrivono ancora i giudici – la situazione di grave difficoltà finanziaria della società era così nota che i capigruppo dei gruppi consiliari, Patrizia Morelli, Raimondo Donzel, Luigi Bertschy, Stefano Ferrero, Joël Farcoz e Stefano Borrello, avevano proposto un ordine del giorno che è stato esaminato e votato, unitamente alla delibera di aumento del capitale sociale. Nel testo dell’ordine del giorno, approvato all’unanimità dal Consiglio regionale (e quindi, anche dagli appellanti), unitamente alla delibera di aumento del capitale, era testualmente affermato che si doveva tenere specifico conto della “gravità della situazione gestionale ed economica in cui è stata lasciata precipitare la Casino de la Vallée SpA, che, sommando le perdite di esercizio del 2012 (18,6 milioni), del 2013 (21 milioni) e del primo semestre 2014 (8,791 milioni), fa registrare una perdita di oltre 47 milioni”. La consapevolezza della reale situazione finanziaria della società era evidenziata in altri due passaggi dell’ordine del giorno, laddove veniva precisato che la relazione sulla gestione della Casa da gioco al 30 giugno 2014, aveva indotto l’amministratore unico a proporre alla Regione di “procedere senza indugio, alla copertura della perdita del periodo tra il 1° gennaio ed 30 giugno 2014, di 8,791 milioni di euro, unitamente alle perdite portate a nuovo di euro 39,708 milioni, evidenziate nel bilancio intermedio” e a procedere “entro tempi ragionevolmente brevi” alla ricostituzione del capitale sociale sino a concorrenza di un importo tale da garantire l’ordinaria attività aziendale».

«Peraltro, la preoccupazione sulla situazione era sottolineata anche nel verbale dell’assemblea ordinaria totalitaria del 22 settembre 2014, anch’esso richiamato dal citato ordine del giorno – prosegue la sentenza – dal quale risultava che il Collegio sindacale aveva invitato l’amministratore a convocare nel più breve tempo possibile l’Assemblea straordinaria onde deliberare “le misure necessarie per garantire l’integrità del patrimonio e la continuità aziendale, tenendo conto dell’avvenuta iscrizione di imposte anticipate non in aderenza a quanto previsto dai principi contabili”. L’esame del testo della delibera approvata dal Consiglio regionale e gli elementi sopra richiamati evidenziano che la situazione di grave difficoltà finanziaria della società era nota a tutti i consiglieri che hanno scelto la via della ricapitalizzazione mentre avrebbero potuto e dovuto valutare altre soluzioni e possibilità, che non hanno preso in considerazione».
Per i giudici «è errato sostenere che la ricapitalizzazione fosse imposta dall’articolo 2446 del Codice civile e che, quindi, fosse obbligata. L’opzione deliberata, infatti, era alternativa, quantomeno, alla messa in liquidazione della società e alla cessione da parte della Regione del ramo aziendale a terzi imprenditori o alla concessione dell’attività della gestione della Casa da gioco e del complesso immobiliare a terzi soggetti, come era avvenuto al momento dell’istituzione della Casa da gioco nel 1946. È indubbio, che la mancata verifica di soluzioni alternative in una situazione nella quale nel 2012 e nel 2013 erano già stati erogati finanziamenti per 40 milioni di euro senza che si registrasse alcun miglioramento (nel 2012 perdite per 18,6 milioni, nel 2013 perdite per 21 milioni e nel primo semestre 2014 perdite per 8,791 milioni, per un complessivo importo superiore ai 47 milioni di euro), ha comportato che l’aumento del capitale sociale sia avvenuto in violazione dei parametri di efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, considerata la ingiustificata dispersione di risorse pubbliche, in assenza di specifiche valutazioni sulle possibili soluzioni alternative o sull’adozione di specifici interventi di risanamento».

«La scelta di disporre l’aumento di capitale effettuata in violazione dei principi di economicità, efficienza ed efficacia»

«L’illiceità del comportamento dei Consiglieri regionali è acclarata anche a prescindere dalla violazione di specifiche disposizioni normative che regolavano, al momento dell’adozione della delibera, la possibilità di mantenere partecipazioni societarie attinenti alla “produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali” – ribadisce della terza sezione giurisdizionale centrale d’Appello della Corte dei conti, giustificando le motivazioni del respingimento dell’appello – e le condizioni alle quali era possibile disporre aumenti di capitale in presenza di reiterate perdite di esercizio. Peraltro, trattandosi di norme imperative di finanza pubblica, i principi stabiliti dalle disposizioni richiamate erano applicabili anche alle Regioni a Statuto speciale, quale è la Regione autonoma Valle d’Aosta. Tuttavia, nel caso di specie, il comportamento illecito dei consiglieri regionali è pienamente ravvisabile a prescindere dalla violazione di esse posto che la scelta di disporre l’aumento di capitale è stata effettuata in violazione dei principi di economicità, efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, con conseguente inutile dispersione delle risorse regionali, indirizzate ad uno scopo privo di utilità per l’Ente».

«Palese ed indiscutibile il collegamento fra l’aumento di capitale ed il danno patito dalla Regione»

«Gli appellanti hanno sostenuto che la sentenza impugnata non aveva reso alcuna motivazione in ordine alla sussistenza del nesso causale tra la delibera di aumento del capitale della società partecipata e il danno contestato dalla Procura regionale – prosegue la sentenza – anche perché la decisione regionale era stata assunta a seguito di accurata ed approfondita istruttoria, corredata dei pareri di legittimità previsti dalla disciplina vigente. Hanno sottolineato, inoltre, che l’aumento di capitale avrebbe arrecato beneficio alla società, al fine di favorirne la ripresa, in assenza di contestazioni da parte della Sezione regionale di controllo della Corte dei conti».
«La censura non è fondata e il motivo di appello non è meritevole di accoglimento – hanno risposto i giudici – richiamato il quadro normativo all’interno del quale operava la società controllata dalla Regione e le circostanze che hanno caratterizzato l’operazione di aumento di capitale, si osserva che il danno, contestato dalla Procura regionale e accertato dal giudice di primo grado, è diretta conseguenza dell’adozione della delibera del Consiglio regionale numero 823/XIV del 2014. Se anche è parzialmente vero quanto affermato dagli appellati in ordine all’esperimento di apposita istruttoria che ha preceduto la decisione di aumentare il capitale, si deve rilevare che la stessa, da un lato, era comunque incompleta perché non aveva preso in considerazione ed esame ipotesi di soluzioni alternative e, dall’altro, che dai dati acquisiti, così come richiamati nella citata delibera del Consiglio regionale, si evinceva la situazione di grave crisi finanziaria della società. Inoltre, il quadro normativo nel quale ha operato il Consiglio regionale, come risultante dalla stessa delibera e dal coevo ordine del giorno, rende palese ed indiscutibile il collegamento fra la decisione di aumento del capitale e il danno patito dalla Regione».

«Grave negligenza e trascuratezza in coloro che hanno agito in contrasto con gli interessi dell’ente»

«I consiglieri regionali che hanno deliberato l’aumento di capitale erano pienamente coscienti della situazione finanziaria della società – insiste il collegio presieduto da presieduta da Luciano Calamaro – del suo continuo peggioramento, nonostante i finanziamenti erogati nel 2012 (trenta milioni di euro) e nel 2013 (dieci milioni di euro), delle criticità del bilancio nel quale erano state allocate indebitamente imposte anticipate (dichiarazione del collegio sindacale risultante dal verbale dell’Assemblea ordinaria totalitaria della società del 22 settembre 2014, richiamato dall’ordine del giorno coevo alla delibera di approvazione dell”aumento di capitale). Nel delineato e caratterizzato contesto, pertanto, il loro comportamento si è rivelato gravemente imprudente e privo della necessaria diligenza che deve caratterizzare l’azione del funzionario pubblico, onorario o di carriera, nella gestione dei beni pubblici che gli sono stati temporaneamente affidati. Le circostanze sopra richiamate evidenziano la palese infondatezza dell’affermazione secondo la quale il comportamento dei consiglieri regionali sarebbe stato caratterizzato da buona fede. È evidente, infatti, che l’approfondita e specifica conoscenza della gravissima situazione societaria e l’adozione di una scelta incongrua di finanziamento della società, in linea con quelle precedenti che non avevano raggiunto risultati positivi, conferma la sussistenza della grave negligenza e trascuratezza, non di certo buona fede, in coloro che, nonostante l’effettiva consapevolezza, hanno agito in contrasto con gli interessi dell’ente. Parimenti infondato è il richiamo al ruolo di Finaosta SpA quale esimente dalla sussistenza della colpa grave. Come ha sottolineato il giudice di primo grado che, contrariamente a quanto asserito da alcuni degli appellanti, non ha trascurato il ruolo della posizione di Finaosta in relazione alla configurazione dell’elemento soggettivo dei consiglieri regionali, “la finanziaria regionale ha sostanzialmente dato seguito alla prescrizione dell’organo politico”. Fra i documenti istruttori che hanno preceduto la delibera era presente una relazione di Finaosta che, incaricata dalla Giunta regionale di eseguire i precedenti finanziamenti del 2012 e del 2013, aveva informato la Regione in ordine alla situazione finanziaria effettiva della controllata e, quindi, aveva messo il Consiglio regionale nella condizione di poter valutare la questione sottoposta al suo esame. Peraltro, Finaosta era società in house della Regione ed era tenuta ad eseguire gli incarichi ricevuti che, come si evince dalla stessa delibera del Consiglio regionale n. 813/XIV del 2014, non prevedevano alcuna sua discrezionalità o verifica preliminare».

«L’ammissione del Casinò alla procedura concorsuale ha confermato l’inutilità dell’aumento di capitale»

Infine «il Collegio osserva che le erogazioni finanziarie nei confronti della società Casinò de la Vallèe SpA, riconducibili all’aumento di capitale, si sono tradotte in un danno per la Regione poiché hanno comportato una diminuzione patrimoniale ingiustificata, in violazione dei principi di economicità ed efficienza dell’azione amministrativa, oltretutto in assenza di diversi e ulteriori vantaggi. L’affermazione degli appellanti, secondo la quale la comunità regionale avrebbe beneficiato dell’occupazione e dell’attività economica riconducibile alla Casa da gioco e all’annesso complesso alberghiero, non è idonea ad incidere sul pregiudizio patrimoniale subito dalla Regione. Infatti, la contestazione della Procura regionale, così come accolta dal giudice di primo grado, non era diretta ad affermare l’illiceità dell’intervento della Regione a sostegno dell’economia locale, ma a censurare le modalità di attuazione per il tramite della ricapitalizzazione di una società che non era più in grado di svolgere la sua attività, come si evinceva dalla situazione patrimoniale e finanziaria».

«Nel delineato contesto, gli eventi successivi e l’ammissione della società alla procedura concorsuale – concludono i giudici – hanno dimostrato, ulteriormente, l’inutilità dell’intervento sul capitale sociale della società, ravvisabile, in sostanza, dallo stesso contenuto della citata delibera del Consiglio regionale numero 823/XIV del 23 ottobre 2014».

Fonte: sentenza n.350/2021 della Corte dei conti

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